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Privatizzazione di Poste Italiane: una truffa legalizzata

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Saccomanni e Letta privatizzano Poste italiane grazie al pacchetto privatizzazioni di 10-12 miliardi. Ma a chi conviene davvero?

di Maria Melania Barone

privatizzazione poste italiane

ROMA – Domani o dopodomani 335 persone (quelle che hanno detto “sì” al ddl 133) provvederanno a ultimare la svendita dell’Italia alle banche estere e alle lobbies. Oltre ai 100 miliardi di euro in riserve auree conservati nella Banca D’Italia, il governo ha infatti privatizzato il patrimonio pubblico e ha provveduto ad innalzare la quota di partecipazione per i privati di Poste italiane S. p. A., una delle poche imprese statali che funzionano. In un solo giorno, venerdì 24 gennaio, il Parlamento ha dato la fiducia al decreto privatizzazioni e al decreto 133 Imu – Bankitalia rinunciando così, in un colpo solo, a 150 miliardi di euro.

LA PRIVATIZZAZIONE DI POSTE ITALIANE – La quota di Poste italiane che sarà ceduta ai privati è pari al 40%, contro un buon 49% dell’Enav, azienda per il traffico aereo. Poste Italiane gestisce circa 45 miliardi all’anno, fattura per 25 miliardi, gode di sconti agevolati IVA e costa solo 1,6 miliardi alla Cassa depositi e prestiti. Significa che  la restante parte costituisce l’utile incassato dallo Stato. Una macchina per far soldi, insomma.

A Poste italiane lo Stato ha chiesto sempre di più a partire dal 2002, anno in cui è entrato Massimo Sarmi come amministratore delegato: è diventata compagnia aerea, gestore telefonico, banca, cassa di risparmio. Solo il gestore telefonico conta ben 3 milioni di utenze. Poi c’è il servizio postale che però negli ultimi anni è andato in sofferenza.

Oltre alla privatizzazione fatta in fretta e furia per fare un regalo ad istituti di credito privati esteri, arriva anche la chiusura degli uffici postali, quelli che ci rendevano davvero unici e che invece, da oggi, spariranno a vantaggio della concorrenza.

Come scrive Nicola D’Angelo su Il Fatto Quotidiano: “Lo Stato infatti ha sulla coscienza un contratto di servizio (ciò che obbliga le Poste ancora a fare le Poste) ridotto al minimo. Nessuno ha poi spiegato ai nostri prodi governanti che prima si fanno le regole sulla liberalizzazione del mercato e sul servizio universale (cioè le regole che obbligano a recapitare le lettere) e poi si privatizza. Ma tant’è“.

LA “FAVOLA TRISTE” DEGLI UTILI AI DIPENDENTI – In un articolo del 25 gennaio scritto sempre sulla stessa testata da Giorgio Meletti, si parla della “triste favola degli utili distribuiti ai dipendenti”, per cui la Cisl si era battuta moltissimo ai tempi del caso Alitalia, è una  metodologia diversa per continuare a rubare con amici e parenti. Per spiegarlo Meletti porta l’esempio dell’Enel, privatizzato dal 1999 anche se ancora controllato dallo Stato. Scrive Meletti: “Già allora con la brillante variante dei dipendenti che si comprano le azioni, indotti addirittura a spendersi l’anticipo del Tfr: le azioni furono piazzate a prezzo stellare (“dobbiamo entrare in Europa”) da un altro predecessore di Saccomanni, l’oggi giudice costituzionale e pensionato di platino Giuliano Amato. Le azioni crollarono subito dopo questa sua frase: “Il prezzo di collocamento non dovrebbe portare a delusioni”. Molti dipendenti Enel hanno poi perso anche il lavoro perché, stando in Borsa, bisogna essere competitivi tagliando gli organici“.

La stessa cosa accadde con Alitalia, anche lì molti dipendenti persero il lavoro, ma non i risparmi. Con poste italiane invece, si pone un altro dilemma. Nonostante al Nord esista una legge che impone alle aziende quotate in borsa di scegliere i componenti del consiglio di sorveglianza attraverso i loro colleghi e, quindi, senza l’imposizione del sindacato, Giovvanni Ialongo è un presidente d’eccezione: fu nominato dalla Cisl e da allora è presidente da 5 anni. Entrò divenendo presidente dell’Ipost, quello per cui oggi i contribuenti devono pagare un milione all’anno per ripianare i debiti. Un buco che fu causato da Massimo Sarmi (dal 2002 in poste italiane), colui che inserì all’interno dell’azienda del Ministero del Tesoro circa 14 mila sportelli finanziari e 140 mila dipendenti in consulenti finanziari pagati come postini.

I NUMERISaccomanni ha inoltre annunciato di voler “prolungare la convenzione con la Cassa Depositi e Prestiti” per cui le Poste raccolgono ogni anno circa 45 miliardi di risparmio. Massimo Sarmi, riceve invece 1,5 milioni all’anno di super-stipendio e l’azienda costa circa 1,6 miliardi all’anno di commissione alla Cassa depositi e prestiti.

Poste italiane è un’azienda enorme con 145 mila dipendenti e circa 25 miliardi di fatturato. Solo un quinto di questo fatturato deriva dal servizio postale vero e proprio, oggi ridotto al lumicino, tutto il resto deriva in gran parte dal servizio di telefonia e dai prodotti finanziari. L’azienda infatti gestisce circa 45 miliardi di risparmio per cui riceve dalla Cassa depositi e prestiti un indennizzo di 1,6 miliardi. In tutto l’azienda produce 1 miliardo di utile al netto che, fino ad oggi, è andato allo Stato. Questa rendita da domani invece andrà garantita ai privati che, chiaramente, hanno interesse ad aumentare gli utili e non le spese. Di conseguenza i tagli saranno, con tutta probabilità, all’ordine del giorno.

IL RUOLO DEI PRIVATI – Sostanzialmente i privati non comandano all’interno dell’azienda, non possono prendere decisioni, ma verseranno quei 4 o 5 miliarducci subito subito, in modo da placare i crampi allo stomaco dello Stato italiano. In cambio riceveranno i dividenti per un totale del 40%.

A CHI CONVIENE? – Lo Stato invece per incassare i suoi piccoli 4,5 miliardi (con una previsione da gonfie vele) dovrà eseguire le esigenze dei privati pur fingendo di mantenere il controllo dell’azienda. Ciò significa che per ridurre dello 0,45% il debito pubblico, una delle più grandi truffe a cui abbiamo deciso evidentemente di non porre fine, dobbiamo chinare il capo dinanzi alle ingerenze dei privati. E intanto della nostra unica “banca funzionante”, ne godranno istituti di credito americani che hanno già l’acquolina in bocca all’idea di potersi garante una percentuale dell’azienda postale più remunerativa d’Europa.

Poste ha quindi una posizione privilegiata all’interno del mercato e la privatizzazione dovrebbe rendere, di solito, il mercato più efficiente. 

A molti commentatori questa mossa del governo Letta non è piaciuta affatto. Nemmeno Il Giornale l’ha digerita e ha asserito che il pacchetto serve a “fare un favore all’Europa”. Del resto un’azienda viene privatizzata per renderla solitamente più efficiente. Resta quindi anomala la privatizzazione di Poste italiane che invece va a gonfie vele. Talmente a gonfie vele che lo stesso Saccomanni dichiara di privatizzarla “proprio perché in buona salute“.

Nel frattempo all’economista Massimo Vaciago non vanno proprio giù le raccomandate con ricevuta di ritorno (su cui le Poste hanno il monopolio n.d.r.) e che vengono consegnate spesso quando una persona non è in casa costringendo l’utente a far file chilometriche alla posta, dice a rainews.it. Tuttavia la privatizzazione è una cosa buona? No. Per l’economista “far soldi alle spalle del paese è una fregatura” e inoltre “Non posso privatizzare un servizio pubblico che resta un servizio pubblico. Se no che pasticcio viene fuori. Non si possono privatizzare monopoli”.

Cosa accadrà dopo la privatizzazione? Verosimilmente, se i tre pilastri su cui si regge il colosso che sfama 145 mila famiglie (è bene ricordarlo) dovessero restare inalterati, allora l’azienda manterrà lo stesso fatturato, in caso contrario gli scenari potrebbero farsi un tantino più cupi. Come ha riassunto Ugo Arrigo, professore di economia all’Università Bicocca di Milano:

La redditività delle Poste si basa su tre pilastri fondamentali, nessuno dei quali è di mercato: compensi pubblici per la raccolta del risparmio, compensazioni pubbliche per il servizio universale e il fatto di svolgere servizi bancari utilizzando personale che gode di un contratto molto meno favorevole di quello dei bancari. Poiché solo lo Stato può garantire la permanenza nel tempo di questi tre pilastri, la privatizzazione parziale avrebbe per oggetto non un’azienda di mercato bensì un’azienda a redditività di Stato“.


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